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Il medico del 118 che non soccorre il paziente

rifiutandosi di scendere in una scarpata

commette i reati di omissione di soccorso

e di rifiuto di atti d’ufficio


Commette il reato di rifiuto di atti d’ufficio e di omissione di soccorso il medico di pronto del servizio 118 chiamato a prestare assistenza alla vittima di un incidente stradale, che rifiuta indebitamente di soccorrerla (senza alcuna altra giustificazio - ne di non sporcarsi scarpe e vestito), non scendendo nella scarpata in fondo alla quale essa giaceva non rispondendo ai ripetuti richiami del barelliere, il quale di propria iniziativa e fuori dalla sua competenza, applicò all’infortunato un collarino come cautela nel caso di trauma cervicale e inserì una cannula per agevolarne la faticosa respirazione. È configurabile il concorso dei due reati (rifiuto di atti d’ufficio e omissione di soccorso) in quanto le due norme incriminatrici tutelano beni diversi: l’art. 328 tutela il regolare funzionamento della pubblica amministrazione, imponendo al pubblico ufficiale e all’incaricato di pubblico servizio di assolvere efficacemente e tempesti -

vamente i doveri inerenti all’ufficio o al servizio; l’art. 593 invece tutela la vita e l’incolumità individuale.


CORTE DI CASSAZIONE, VI SEZIONE, SENTENZA 7 GIUGNO 2000, N. 863

SENTENZA

MOTIVI DELLA DECISIONE


Con sentenza del 1 ottobre 1999 la corte di appello di Milano, parzialmente riformando la decisione di primo grado, riduceva a sei mesi di reclusione la pena inflitta a Rotondo Rosario, giudicato colpevole dei delitti di cui agli artt. 328, comma 1, e 593 c.p., perché, chiamato quale medico del servizio sanitario 118 a prestare assistenza alla vittima di un incidente stradale, rifiutava indebitamente di soccorrerla, non scendendo nella scarpata in fondo alla quale essa giaceva. Avverso detta sentenza l’imputato ricorre per cassazione e denuncia:

1. la violazione dell’art. 15 codice penale, perché, nel caso in cui l’autore dell’omissione di soccorso sia un medico esercente un pubblico servizio, il reato di cui all’art. 593 sarebbe assorbito nella previsione di cui all’art. 328 codice penale;

2. erronea applicazione dell’art. 328 codice penale e vizio di motivazione, perché essendo compito del barelliere e dell’infermiere quello di recuperare

l’infortunato e portarlo al cospetto del medico, non poteva integrare il fatto delittuoso il comportamento dell’imputato che, invece di scendere nella scarpata, attese che il ferito fosse caricato sulla barella e portato sulla strada; 3. mancanza di motivazione, perché il giudice a quo ha ritenuto doloso il rifiuto, senza considerare che la discesa lungo la scarpata era pericolosa e l’imputato non calzava scarpe idonee;

4. eccessività dell’importo liquidato in favore della parte civile a titolo di risarcimento danni morali.

Il primo motivo di ricorso è infondato. Presupposto del concorso apparente di norme disciplinato dall’art. 15 codice penale è che le diverse disposizioni di legge applicabili al fatto regolino “la stessa materia”, ossia che esista identità e omogeneità del bene protetto. Nel caso di specie tale presupposto non ricorre, perché le norme incriminatrici

concretamente applicate tutelano beni diversi: l’art. 328 codice penale, che è inserito tra i delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, tutela il regolare funzionamento della pubblica amministrazione, imponendo al pubblico ufficiale e all’incaricato di pubblico servizio di assolvere efficacemente e tempestivamente i doveri inerenti all’ufficio o al servizio; l’art. 593 codice penale, invece, è collocato tra i delitti contro la vita e l’incolumità individuale e sanziona la violazione del generale dovere morale e sociale di mutua assistenza. Pertanto la sentenza impugnata ha correttamente ritenuto il concorso formale dei reati contestati, avendo l’imputato, con un’unica omissione, realizzato due distinti effetti giuridici, previsti e sanzionati da due diverse disposizioni della legge penale, da applicarsi entrambe al caso concreto. Anche il secondo motivo è privo di fondamento.

I giudici del merito hanno posto in evidenza che la vittima, fortemente traumatizzata per le gravi lesioni riportate nel ribaltamento del trattore alla cui guida era al momento dell’incidente, abbisognava di urgente, immediato soccorso medico. Ma l’imputato, invece di accostarsi subito al ferito per accertarne le condizioni e prestargli le prime cure, restò fermo sulla strada, sordo ai ripetuti richiami del barelliere, che, di propria iniziativa e fuori dalla sua competenza, applicò all’infortunato un collarino come cautela nel caso di trauma cervicale e inserì una cannula per agevolarne la faticosa respirazione. Quando il ferito fu finalmente portato per essere poi caricato sull’elicottero diretto al centro di rianimazione, la sopravvenuta vasocostrizione ree impossibile praticargli una fleboclisi. Orbene, in coerenza con le accennate risultanze probatorie, la sentenza impugnata, considerato che il medico, di fronte a un infortunato che versava in palese pericolo di vita, pur potendolo fare, omise di prestargli le prime indispensabili cure, ha giustamente affermato la sussistenza dei reati contestati.

Manifestamente infondato è il terzo motivo, perché la sentenza impugnata, basandosi sulle incontrovertibili testimonianze degli astanti, diffusamente spiega come la discesa della c.d. Scarpata fosse breve e agevole, giungendo così alla logica e incensurabile conclusione che il rifiuto di soccorso fu determinato non dall’asserita pericolosità del tragitto, ma dal desiderio di non sporcarsi scarpe e vestito. Quindi il rifiuto essendo sfornito di valida giustificazione, è stato rettamente ritenuto doloso. Inammissibile, infine, è l’ultimo motivo di gravame, posto che l’opinione del ricorrente, secondo cui l’importo liquidato in via equitativa a titolo di risarcimento del danno morale sarebbe “eccessivo”, si risolve in una censura generica, implicando valutazioni di fatto non consentite nel giudizio di legittimità.

Il ricorso deve dunque essere rigettato, con la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.


P.Q.M.

La Corte di Cassazione rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma il 9 maggio del 2000.


DOCUMENTI


COMMENTO


Il fatto che ha portato a questa sentenza è chiaro. Un medico del servizio 118 si è rifiutato di scendere in una scarpata insieme al barelliere e all’infermiere per prestare i primi soccorsi, eccependo sostanzialmente due motivi: il primo di competenza - competerebbe all’infermiere e al barelliere scendere nella scarpata e non al medico - , il secondo di pericolosità - il tratto da scendere era pericoloso per la sua integrità personale - .

Entrambi i motivi sono stati, ai sensi dell’art. 328 ritenuti non validi e il rifiuto di soccorrere il paziente è stato considerato “indebito”. La sentenza, di per se ineccepibile, contiene più di un motivo di interesse. In primo luogo il concorso tra il reato di omissione di soccorso e di rifiuto di atti d’ufficio. Non vale infatti, in questo caso, la norma contenuta all’interno dell’art. 15 codice penale che pone una regola di prevalenza di specialità a generalità.

Rettamente la suprema Corte argomenta che il reato di omissione di soccorso non risulta assorbito dal reato di rifiuto di atti d’ufficio - in quanto commesso da un pubblico ufficiale, quale risulta essere per la giurisprudenza prevalente, ma non sempre per la dottrina giuridica, un medico dipendente del Servizio sanitario nazionale - non sono tra di loro assorbibili in quanto il rifiuto d’ atti d’ufficio è un delitto che tutela il regolare andamento della pubblica amministrazione, mentre l’omissione di soccorso tutela la vita e l’incolumità individuale. Quindi non si può stabilire la prevalenza della norma speciale - il rifiuto di atti di ufficio - rispetto a quella generale - l’omissione di soccorso: manca cioè la caratteristica richiesta dall’art. 15 della “stessa materia” che presuppone, secondo la migliore dottrina, non soltanto il medesimo fatto, ma anche identità od omogeneità del bene protetto (non mancano però nella stessa dottrina tesi avverse).

Del tutto inconsistente inoltre la tesi difensiva secondo cui non competerebbe al medico, ma all’infermiere e al barelliere (?) scendere nella scarpata, quando la discesa si è in realtà dimostrata agevole, ma soprattutto quando il paziente necessita di interventi medici o quanto meno più qualificati di quanto possa mettere in atto il barelliere.

Non vi sono dubbi sul fatto che quello che rende particolarmente grave la posizione del condannato di questa vicenda giudiziaria risieda nel fatto della sua qualifica, o meglio, delle sue qualifiche. Infatti egli è, nell’ordine:

1) medico;

2) pubblico ufficiale o (al limite) incaricato di pubblico servizio;

3) operante nel servizio di emergenza territoriale preposto a questo tipo di servizio.

Non è cioè un quisque de populo, ma è proprio il soggetto principe deputato all’emergenza sanitaria territoriale dal nostro ordinamento o come è stato detto nella dottrina giuridica è “l’obbligato al soccorso per eccellenza” (Cadoppi A, Il reato di omissione di soccorso, Cedam, 1993). Storicamente l’omissione di soccorso viene punita in modo più grave per l’esercente la professione medica. È sufficiente infatti ricordare che sia nel codice penale previgente a quello attuale, il c.d. Codice Zanardelli, sia addirittura in alcuni codici dell’Italia preunitaria si prevedevano specifiche fattispecie di reato per gli esercenti le professioni sanitarie, con in primo piano la professione medica. Ricordiamo per tutti il codice parmense del 1820 che disponeva testualmente: “Sono puniti con multa da 16 lire a 100 lire il medico, chirurgo, o speziale, o la levatrice che senza giusta causa ricusino in qualunque ora di prestarsi al soccorso di ammalato in urgente bisogno”.

Luca Benci


LE NORME DEL CODICE PENALE RICHIAMATE:

Art. 12

Materia regolata da più leggi penali o da più disposizioni della medesima legge penale. Quando più leggi penali o più disposizioni della medesima legge penale regolano la stessa materia, la legge o la disposizione di legge speciale deroga alla legge o alla disposizione di legge generale, salvo che sia altrimenti stabilito.

Art. 328, I comma

Rifiuto di atti d’ufficio

Il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che indebitamente rifiuta un atto del suo ufficio che, per ragioni di giustizia o di sicurezza pubblica, o di ordine pubblico o di igiene e sanità, deve essere compiuto senza ritardo, è punito con la reclusione da sei mesi a due anni.

Art. 593

Omissione di soccorso

Chiunque, trovando abbandonato o smarrito un fanciullo minore degli anni dieci, o un’altra persona incapace di provvedere a se stessa, per malattia di mente o di corpo, per vecchiaia o per altra causa, omette di darne immediato avviso all’autorità è punito con la reclusione fino a tre mesi o con la multa fino a lire seicentomila. Alla stessa pena soggiace chi, trovando un corpo umano che sia o sembri inanimato, ovvero una persona ferita o altrimenti in pericolo, omette di prestare l’assistenza occorrente o di darne immediato avviso all’autorità. Se da siffatta condotta del colpevole deriva una lesione personale, la pena è aumentata; se ne deriva la morte, la pena è raddoppiata.